La coppa maledetta – I parte

La guardi ed è bellissima, quelle grandi orecchie ti portano ad avvicinarti e sussurrargli piano piano: «Quanto sei bella!» La Coppa più ambita per club di calcio: la Coppa dei Campioni.

Bruxelles, 29 maggio 1985. È la sera della finale, tutto il mondo guarda lo stadio Heysel, Juventus – Liverpool è la finale annunciata. Una sera non come le altre per molti italiani. Dopo mesi di sacrifici, due amici, così diversi ma accomunati dalla stessa passione in Bianco e Nero, riescono a prendere i biglietti per la partita…

Sono a Bruxelles. È il 29 maggio del 1985. Sono davanti all’Heysel, lo stadio dove abbiamo vinto la coppa.

Lo immaginavo diverso questo momento: persone che si abbracciano, sciarpe e bandiere al vento, un’atmosfera di quelle che non si scordano mai. Invece è l’inferno quello che sto guardando…

Urla, pianti, grida disperate. Centinaia di persone, con maglie a strisce bianconere, corrono confuse. Altre sono sedute a terra spaventate. Decine e decine di tende della croce rossa sono accampate lungo il perimetro dello stadio. Degli infermieri si servono di transenne ad uso di barelle, mentre i poliziotti cercano invano di mantenere l’ordine.

Sparpagliate a terra, decine di bandiere logorate dal passaggio della gente rendono surreale quel suolo.

Pisa, 3 settimane prima

Stasera non ci sono per nessuno. Seduto sul divano del mio seminterrato, fisso il televisore sul quale ho poggiato la sciarpa della Juve come da tradizione. Ho le dita tra i denti e uno spinello nell’altra mano. Il cuore è a mille, lo stomaco mi si lacera. È la Juventus la causa della mia agitazione. Sta giocando la semifinale a Bordeaux ed è a un passo dalla vittoria. Spengo lo spinello nel posacenere stracolmo di mozziconi e prendo una birra dal tavolo senza distogliere gli occhi dalla partita neanche per un attimo. Non ricordo con esattezza se è la terza o la quarta della serata, so solo che inizia a girarmi la testa.

Finito il primo tempo mi rilasso. Sorseggio la birra e cazzeggio passando da un canale all’altro. Penso a Roberto. È bello averlo vicino in questi momenti, provare la stessa ansia che ci uccide ma nello stesso tempo ci fa compagnia. Ma lui non c’è. È in pizzeria con il suo solito grembiule sporco di pomodoro e il berretto girato alla rovescia. Suda e sforna continuamente pizze. Si deve mantenere agli studi. Gli manca poco, la tesi è vicina. Studiare e lavorare non è mai stato un problema per lui. Rimasto orfano di padre all’età di 15 anni, si è subito adeguato ad essere l’uomo di casa. Quella sera però anche la sua testa è da tutt’altra parte. La voce rauca di Sandro Ciotti che commenta la partita lo distrae, al punto di non ricordarsi nemmeno se sulla pizza ha messo la giusta dose di pomodoro o no. La voce del radiocronista va a viene, la radio in cucina non prende bene. A tratti interrompe il lavoro per sintonizzarla e le lamentele del cameriere lo fanno impazzire. Povero Roberto, non gli è concesso neanche un attimo per sentire la partita in santa pace.

Finalmente la serata giunge al termine. Roberto si cambia velocemente, saluta i suoi colleghi e sale veloce sul suo vecchio Ciao.

Ho il cuore in gola. Stiamo perdendo, ma questo risultato ci qualificherebbe ugualmente per la finale. Una finale attesa da tutta la stagione.

La voce di mia madre, che mi esorta ad andare ad aprire la porta di casa, mi distrae. Velocemente salgo le scale e la apro. I miei occhi incrociano quelli di Roberto. Senza scambiarci parola corriamo di sotto, sul divano, a soffrire insieme. La nostra sofferenza per fortuna dura pochi attimi. Al fischio finale ci abbracciamo felici. La promessa fatta a ottobre davanti ad una birra si può finalmente concretizzare. Andiamo  a Bruxelles. Non ce la perdiamo questa finale.

E ora via, usciamo. Ho bisogno d’aria, di vedere facce amiche. Porgo le chiavi della mia nuova Alfa Romeo a Roberto. Gli dico di aspettarmi nel cortile, voglio cambiarmi. Ma cos’è che mi fa paura? Forse venir giudicato dal mio migliore amico?

Apro un baule, il baule che racchiude tutta la mia infanzia. Peccato che non lo apro più per giocare. Tra tutte le cianfrusaglie, tiro fuori la scatola di “Indovina Chi”. La apro e prendo la bustina di coca che copre la tessera di Richard. Sembra che anche lui mi guardi male. Senza neanche chiuderla, metto la coca in tasca e mi avvio verso l’ingresso.

Al piano di sopra c’è mia madre. Sta giocando a carte con le sue amiche. Non le sopporto. Senza neanche guardarla negli occhi le chiedo dei soldi. Lei mi indica il solito cassetto, è lì che mio padre mi lascia i soldi quando non c’è. Nel cassetto trovo cinquantamila lire. Sorrido. Più non lo vedo e più mi riempie di soldi. Che imbecille.

Il bar che si affaccia sull’Arno stasera brulica di gente. I più stanno giocando a carte e sorseggiando birra. La serata è bella, l’estate è alle porte. Mi sento forte, felice. Roberto e Alice mi sono seduti di fronte. Sorridono, si baciano. Sono due anni che stanno insieme, eppure sembrano sempre più innamorati.

Li guardo giocare, guardo i loro sguardi d’intesa, ma soprattutto guardo lei. La guardo come se il suo posto fosse sbagliato. Come se dovessi esserci io accanto a lei. Si volta, vede che la sto fissando, mi sorride. Mi sorride in un modo che mi fa male. Mi sorride come una donna fa con suo fratello, con immenso amore, un amore ben diverso da quello che prova per lui. Una pacca sulla spalla mi distoglie dai miei pensieri. Lucio e Fabio sono dietro di me. Sono due amici o forse no. Forse quello che ci lega è tutt’altro. Roberto come al solito li guarda male e guarda male anche me, perché è inutile nasconderlo, conosce i miei vizi. Gli sorrido imbarazzato. Mi alzo e mi allontano dal tavolo con loro.

Prima di entrare in bagno, ci guardiamo intorno. Tiro fuori dal portafoglio la mia carta d’identità dove preparo tre strisce di coca.

Mi trascino verso il portone di casa. Tiro fuori la chiave dalla tasca. Sembra così difficile centrare il buco. Quando riesco finalmente ad aprirla il buio mi assale. Inizio a barcollare nel corridoio e dopo pochi minuti mi ritrovo in bagno con la testa nel cesso. Vomito rumorosamente tutto l’alcol ingerito. Come d’abitudine mio padre appare davanti alla porta come un fantasma.

Fallito, stupido, ragazzino… ormai so a memoria i suoi rimproveri. Non ho neanche più la voglia di ascoltarli, e infatti non lo faccio. Continua a parlare, mentre io continuo a vomitare.

Il mal di testa mi direbbe di restar a letto, ma c’è qualcuno e qualcosa che mi aspettano. Mi alzo, è già mezzogiorno.

Roberto è seduto alla sua scrivania, circondato da decine di libri. Sta preparando la tesi in economia. È dura, ma lui ce la farà. Entro in camera sua. Quando mi vede storce il naso. Sa che lo studio è finito. Infatti vado diretto verso la sua collezione di musicassette. Prendo la mia preferita, “Bollicine”. Parte il pezzo “Vita spericolata” e io, seguendo la voce di Vasco, inizio a cantare. Vengo interrotto dalla porta di camere che si apre; Beatrice, con il sorriso sulle labbra, ci chiama a tavola.

Carne, piselli stufati, un pranzo per niente particolare, eppure io mi sento così felice. Mi piace stare così, tra Beatrice e Roberto, tra quelle persone così vicine tra loro. Loro sì che sono una famiglia, una famiglia vera, non come quelle che si sforzano di far finta di essere unite solo perché è così che bisogna essere. Non una famiglia come la mia. Ci gustiamo il pranzo velocemente, poi usciamo eccitati.

Entriamo in agenzia. Non vediamo l’ora di mettere le mani su quei biglietti. C’è la fila, una decina di ragazzi ci separano dalla commessa. Ripenso agli anni di scuola, a quando io e Roberto abbiamo iniziato a frequentarci al club della Juve. È il nostro turno. La ragazza ci stampa i biglietti e ci prenota il volo. Usciamo, ci abbracciamo felici, ci sentiamo già a Bruxelles, già vincitori.

È sabato sera, mancano solo tre giorni alla finale. Afferro l’ennesima birra dal bancone e mi siedo al tavolo con i miei amici. Mi gira la testa. Sono anni che fumo hashish ma il contrasto con l’alcool è ancora insopportabile. Tra una chiacchiera e l’altra vedo Alice arrivare. È da sola, Roberto è a lavoro stasera. La guardo titubante. Sembra che si faccia sempre più bella. Non so se farmi vedere. Sto troppo fuori stasera.

Mi vede. Si avvicina sorridente al tavolo e mi bacia una guancia. La invito a sedersi. Parliamo per un po’, quasi isolandoci dal resto della gente. Parliamo della partita, di Roberto, di me, del mio carattere di merda. Mi conosce, sa quello che sono, sa di tutte le cazzate che faccio, ma crede in me, ci crede come Roberto, come Beatrice. Sono loro la mia famiglia. L’unica cosa che mi è rimasta.

Si è fatto tardi. Ci alziamo dal tavolo e ci incamminiamo verso il parcheggio. Alice vuole portarmi a casa. Mi dice che non posso guidare, sono troppo ubriaco. Forse è vero, ma io insisto. Non me la sento di star da solo con lei ora. Ma Alice persevera. È testarda, quando decide qualcosa non ti resta che obbedire. Monto in macchina. Mi parla, ma io non le presto attenzione sono distratto dal suo corpo, dalla sua voce rassicurante. È un attimo. E io perdo il controllo. Non sono più in me o forse lo sono più che mai. Arrivati sotto casa si avvicina. Mi dà un bacio per salutarmi. Io le prendo la testa e la spingo verso le mie labbra. Lei mi respinge, sembra confusa. L’effetto degli stupefacenti e dell’alcol che ho nel corpo mi trasformano in un animale. Mi ci scaravento addosso, la blocco afferrandole le spalle. Comincio a baciarle il collo, ma lei si libera dalla mia presa e mi dà uno schiaffo. È spaventata. La botta e il suo sguardo mi fanno ritornare in me. Che cosa ho fatto? Sono il solito imbecille. Senza neanche salutarla, apro di scatto la portiera e corro verso casa.

(fine prima parte)

© Andrea Santoni, Rossella Inglese, Gianluca Nocenti

L’immagine è tratta da www.gqitalia.it/sport/calcio/champions-league/2015/05/28/heysel-30-anni-fa-la-tragedia-di-juventus-liverpool/

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